Poco meno di un anno avevo raccontato la bellezza di queste foreste nella “Parte prima” o almeno ci avevo provato. Andai nei boschi per vivere con saggezza e affrontare solo i fatti essenziali della vita scriveva Thoreau immaginando un’esistenza fatta di silenzi e individualità ma tuttavia connessa con tutto; perché è questa la sensazione che si prova quando ci addentra in una grande foresta, la sensazione di entrare in una realtà parallela, autonoma, che basta a se stessa.
Siamo convinti che il mondo non se la caverebbe senza di noi ma è solo un’illusione, un inganno che svanisce non appena si lascia l’auto sul ciglio della strada che conduce a l’Eremo di Camaldoli e ci si dirige verso l’interno del bosco, tra i fitti alberi e il fogliame autunnale. Questo è il primo anno in cui sono riuscito ad osservare il Casentino in pieno autunno, non ero mai riuscito ad azzeccare il giusto momento ed è uno spettacolo che lascia senza parole, sembra di ritrovarsi in quello che nell’immaginario collettivo potrebbe corrispondere più al Canada che all’Appennino tosco-romagnolo.
Molti non lo sanno ma il legame tra queste foreste e Firenze affonda le proprie radici – come si usa dire a volte – nella notte dei tempi e è si consolida in particolar modo nel XV secolo perché è proprio dal Casentino che proviene il legname con cui l’Opera del Duomo costruiva i suoi edifici in città tra cui ovviamente l’imponente Cupola che è diventata il nostro simbolo nel mondo. I grandi abeti venivano tagliati, ripuliti e poi trasportati via nave attraverso l’Arno grazie a un sistema chiamato fluitazione che – guarda caso – è ancora in uso oggi in alcune zone del territorio canadese e nel Nord America.